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Focus

Il grottesco Primo Maggio del mondo dello spettacolo

Il 2020 ci ha portato il covid, il lockdown, la voglia di cantare sui balconi, scegliete se “Bella Ciao” il 25 aprile o Rino Gaetano tutti gli altri giorni. E poi ancora, vedrai che andrà tutto bene, è solo un’influenza, è peggio di un’influenza, Bergamo e la sua via crucis di bare.

Dicevamo di stare bene durante la prima ondata. Non tutti lo dicevano, perché c’era già chi stava male. C’era chi stava ancora peggio e non ne parlava. C’era chi parlava troppo. In realt nessuno trovava le parole giuste perché nessuno le aveva. C’era chi stava male veramente e chi fingeva. Mentivamo a noi stessi. Durante la seconda ondata, in autunno, abbiamo mentito un po’ di meno. Nessun arcobaleno, nessun popolo unito, nessun volemose bene, nessuna empatia. Siamo implosi nelle nostre stanze disordinate, alcuni in orrendi monolocali da 40 metri quadri.

Il 2020 ci ha portato di tutto ma ci ha tolto altrettanto. Le cene ai ristoranti, gli aperitivi, la “movida”. Sono parole che, ad oggi,  anche solo a pronunciarle causano un ingiustificato senso di imbarazzo e vergogna. Prima si trattava di un bisogno fisiologico, un cercarsi gli uni con gli altri, oggi una frivolezza che non ci possiamo permettere.

Ma qui parliamo di musica e pure sulla musica ci sarebbe tanto da dire. O forse niente in realtà. Andavamo ai concerti e ora non ci andiamo più. Tutto ciò che gravita intorno alla musica è appannato, incolore, talvolta morto e sepolto. Ce lo dimostra l’Ohibò che ha chiuso i battenti a giugno dell’anno scorso. Il 22 febbraio 2020 all’Ohibò avevano suonato i Gazebo Penguins. Nel frattempo in Lombardia c’era il panico, Codogno era in quarantena. Qualcuno cercava il paziente zero e non lo trovava.

Ad altri locali di Milano, come il Serraglio e il Blues House, è toccata la stessa sorte. Ora sono chiusi e ce ne dispiacciamo. Ma noi si va avanti, in fondo. Ci diciamo che la vita continua e per un secondo siamo quasi sollevati di avere un lavoro, per chi non l’ha perso, oppure una famiglia, un gruppo di amici.

Quelli che lottano sono sempre gli altri. Lo hanno fatto a gennaio 130 live club (assieme a molti altri artisti  in tutta Italia) con la campagna #ultimoconcerto, un’iniziativa volta a sensibilizzare la politica circa le precarie condizioni economiche in cui riversano da oltre un anno questi spazi. Hanno inoltre chiesto di essere riconosciuti come luoghi della cultura al pari di cinema e teatri, per poter usufruire delle misure di sostegno senza le quali la sopravvivenza nel lungo periodo sarebbe impossibile.

Eppure sembra di essere in guerra. Con morti e feriti, ma soprattutto mutilati. Ad arginare i danni ci pensano le banche, a cui diversi live club si sono rivolti per ottenere qualche finanziamento, causa i costi fissi elevati e la mancanza di liquidità disponibile. Un locale come l’Alcatraz – riporta Rolling Stone – ha registrato nell’ultimo anno fino al 90% di fatturato in meno rispetto all’anno precedente. Una situazione difficilmente sostenibile nel lungo periodo.

La speranza è riposta nelle recenti riaperture e nella campagna di vaccinazione. Tuttavia, per il comparto artistico (dalla musica, al cinema, al teatro) ci sono delle ferite difficili da rimarginare.

Per deformazione professionale, dedichiamo questo Primo Maggio a tutti i lavoratori dello spettacolo che hanno perso il lavoro. A fonici, turnisti, addetti alle luci, produttori, etichette discografiche grandi e piccole che navigano a vista. Ai circoli ARCI che resistono e a quelli che non ce l’hanno fatta. A chi già prima faceva fatica ad emergere e ora non può proprio farlo perché senza un concerto è impossibile farsi conoscere.

Torneremo ai concerti, torneremo a pogare. Anche se forse è pagare ciò che serve, visto che di soldi non ce ne sono più.

Photo credits: Facebook primomaggioroma

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