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IntervisteMagazine

Simone Castello, la musica dal vivo ai tempi del Covid

Prendersi 40 minuti di tempo per parlare con Simone Castello, fondatore dell’Etichetta Costello’s, promoter e un tempo direttore artistico del Circolo Ohibò, significa guardare il panorama musicale attuale con gli occhi di uno che lo conosce bene. Un po’ nostalgico ma non troppo, ricorda il passato ma ha bene in testa il presente. Il Circolo Ohibò ha chiuso da quasi un anno. Lui lo facevo molto più arrabbiato e gliel’ho pure detto. Simone non si fa portatore di un messaggio politico, ma la sua testimonianza, in un periodo complicato per tutti ma per il circuito musicale ancora di più, è fondamentale.

Qui la nostra chiacchierata.

Ciao Simone, dicci in sintesi qualcosa di te.
Non ho il dono della sintesi (ride, NdR). Sono un operatore in ambito musicale attivo da diversi anni. Ho sviluppato la mia professionalità sullo scouting. Dentro Costello’s ho sempre cercato di rendere più conosciuto tutto ciò che prima non lo era. Di fatto il mio obiettivo è quello di prendere per mano potenziali talenti e promuoverli, magari dar loro un palco dove suonare. Spero di essere stato sintetico.

Prima del covid riuscivi a trovare quella nicchia di notorietà agli artisti che lanciavi o hai sempre trovato delle resistenze?
Una premessa. Ho operato su tutti i fronti: quando sono stato direttore artistico di Ohibò, sceglievo chi far suonare su quel palco. Ho la mia etichetta, con cui cerco di far conoscere gli artisti, dargli una visibilità. Faccio anche promozione, come avrai capito dai continui comunicati stampa che mandiamo (comunque c’è chi è peggio, NdR). Il panorama musicale attuale dal mio punto di vista non è aperto come dovrebbe essere. Ritengo la musica qualcosa di sacro e meritocratico, da trattare con i guanti. Eppure le logiche su che cosa passa e cosa no, spesso ma non sempre, non dipendono da un valore effettivo dell’artista. Aggiungi anche che quello musicale, e più in generale dello spettacolo, è un settore dove la competizione è molto alta. È difficile posizionarsi. Funziona tutto a compartimenti stagni: se io mi costruisco una credibilità come promoter, non l’avrò per forza come label manager o ufficio stampa.

Pensavo che queste professioni comunicassero tra di loro…
Sì e no. È difficile essere credibili e riscontrare la stessa attenzione su tutti i campi. Ti faccio un esempio: se come direttore artistico faccio suonare Mahmood dieci giorni prima che vinca Sanremo o Calcutta prima che esploda totalmente, allora vengo riconosciuto. Ma se ho un artista molto valido su cui punto, non è detto che le stesse persone che mi hanno riconosciuto il merito di aver fatto suonare Mahmood o Calcutta riservino lo stesso interesse anche sulle mie proposte, che sono spesso emergenti. Diciamo che finché non hai un artista che riceve particolari attenzioni all’esterno, dovrai sempre lottare per qualsiasi cosa.

E qui parla l’esperienza personale.
Mi capita di proporre qualcuno in cui credo. A prescindere dall’effettivo risultato, spesso scopro che nessuno degli addetti ai lavori lo ha ascoltato. E questa cosa mi dispiace, perché c’è una barriera iniziale difficilmente superabile: magari poi qualcuno finisce per ascoltarlo e scoprirne il valore. Altri operatori invece, che hanno avuto un certo tipo di riscontro in passato, avranno la strada molto più in discesa, a prescindere dall’artista che vogliono lanciare.

Il gusto del pubblico si può educare, invece?
Il pubblico si può assolutamente educare. È ciò che ho fatto in Ohibò, cercando di portare una programmazione che mettesse al centro la qualità e che trovasse il giusto compromesso tra critica e pubblico. Perché il beneplacito di una certa critica è comunque fondamentale. Solo la televisione permette di bypassarlo. Non è un caso se format come X-Factor portino alla ribalta dei progetti che per vie “normali” non sarebbero arrivati dove sono.

Il pubblico si può assolutamente educare. È ciò che ho fatto in Ohibò, cercando di portare una programmazione che mettesse al centro la qualità e che trovasse il giusto compromesso tra critica e pubblico.

Davvero il parere della critica è così importante?
È innegabile che ci sia un circuito, fatto da una fetta di critici musicali e operatori, che funziona con dei meccanismi abbastanza conosciuti. Spesso non c’è bisogno di ascoltare un determinato progetto per capirne le potenzialità sul mercato. A me basterebbe vedere l’andamento sui social network o l’opinione di certe persone nella “bolla” di cui faccio parte per capire se può godere di attenzione. A volte le potenzialità di un progetto rispecchiano la (meritata) attenzione. Altre volte no, è solo marketing.

Cambiamo argomento e parliamo dell’ultimo anno. Sappiamo tutti che è stato un dramma, in particolare per gli “addetti ai lavori” nel mondo dello spettacolo. Il 22 febbraio i Gazebo Penguins hanno suonato al Circolo Ohibò. Mi confermi che è stata l’ultima data prima che chiudesse?
Confermo. Nessuno poteva saperlo. Il giorno dopo è cambiato tutto. Tutti i locali e i circoli come Ohibò hanno chiuso. E alcuni, proprio come Ohibò, non hanno più riaperto.

Simone Castello, fondatore dell’Etichetta Costello’s, promoter e un tempo direttore artistico del Circolo Ohibò

Ho letto che tra le ragioni della chiusura c’è stato un conflitto con la proprietà. È comunque innegabile che senza la pandemia il Circolo Ohibò sarebbe rimasto aperto…
Assolutamente sì, sarebbe rimasto aperto. Doveva esserci un cambio di direttivo nell’Associazione, saremmo subentrati a quella precedente. Considera che il circolo Ohibò  era un luogo frequentato dai 12 ai 15 mila associati all’anno. Nei piani c’erano alcuni lavori di adeguamento e sicurezza dello spazio necessari. Cose piccole, che però andavano fatte. Questi interventi erano preventivati per l’estate e per realizzarli occorreva quel passaggio di direttivo di cui ti parlavo. La chiusura dei locali ha bloccato tutto. C’era un affitto da pagare, che non è mai stato abbassato. Insomma, si prospettavano mesi di incertezza. Dovevamo trovare una soluzione che non ci facesse sprofondare nei debiti. Però non c’è stato nemmeno il tempo di pensarla. Quelli dell’Associazione hanno preferito sciogliere il contratto e chiudere le pendenze amministrative per non dover pagare più l’affitto.

A nulla sono valse le proposte di crowdfunding di chi vi seguiva?
No, perché la proprietaria non voleva averci più nulla a che fare. Aveva altre idee di locazione per quello spazio. Una campagna di crowdfunding – di fatto – voleva dire solo regalare dei soldi a lei. Col senno di poi, la decisione di tirare i remi in barca ha avuto senso. Ad oggi saremmo stati ancora chiusi e in sofferenza. La cosa che mi è dispiaciuta di più è stata la modalità piuttosto sbrigativa con cui è avvenuto il tutto, come se di Ohibò non importasse niente. Quel posto in fondo era la nostra vita negli ultimi anni. Vista l’ondata di affetto che ci è arrivata, non sapevamo se essere contenti per il segno che avevamo lasciato o disperati per ciò che era successo.

Il Circolo Ohibò era la nostra vita negli ultimi anni. Vista l’ondata di affetto che ci è arrivata, non sapevamo se essere contenti per il segno che avevamo lasciato o disperati per ciò che era successo.

Probabilmente entrambe le cose.
Eh sì, sono state sensazioni piuttosto contrastanti.

Ti sei dovuto reinventare dopo la chiusura?
Ho avuto la fortuna e la tenacia di mantenere in vita le altre attività che gestivo. Le energie che dedicavo come direttore artistico le ho riversate nell’ufficio stampa, nell’etichetta e in tutte le altre attività annesse e connesse. Abbiamo adottato un approccio più metodico e progettuale rispetto a prima. Passione e cuore non mancano, perché scegliamo solo artisti – e persone – che ci piacciono. Qualche risultato l’abbiamo ottenuto: la distribuzione ce la gestisce un nome importante come The Orchard (fa parte del gruppo Sony, NdR).

Senza farti portatore di nessuna bandiera politica, come credi sia stata gestita l’emergenza per il mondo dello spettacolo da parte della politica?
Non è tanto il come sia stata gestita, ma quali fossero i presupposti. E i presupposti sono quelli di un Paese che in tutte le sue categorie, non solo quella dello spettacolo, è da molti anni vittima di mala gestione. Nel mio piccolo, a livello non tanto statale ma comunale, ho percepito comunque un aiuto concreto.

E dell’iniziativa #ultimoconcerto, sollevata da numerosi live club che si sono visti senza futuro e col terrore di chiudere i battenti, che cosa pensi?
Sono allineato. Del resto, le proposte sollevate dai vari live club sono tutte valide e nascono da quel sentimento di volersi sostenere a vicenda. Però la domanda che ci dovremmo fare tutti è chi stiamo davvero aiutando. C’è una fetta grossissima di lavoratori che non è riconosciuta dallo Stato Italiano come dovrebbe. Ha dovuto spesso navigare a vista e adattarsi ad un contesto irto di ostacoli. Penso a chi lavora come responsabile di produzione, ai fonici, ai musicisti stessi: una seria regolamentazione di queste figure non c’è mai stata. Mancano le condizioni economiche, i giusti riconoscimenti. Tutto ciò che è “artigianale”, in questo senso, è sfavorito rispetto a realtà più strutturate, che magari beneficeranno maggiormente dei sostegni. È solo che il divario aumenterà.

Ti facevo più arrabbiato di così. Mi hai dato delle risposte molto pensate.
La rabbia l’ho smaltita.

Credits Photo: Facebook

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