TOP 10: I MIGLIORI ALBUM STRANIERI DEL 2021
Che schifo le classifiche.
Sono un passatempo inutile in cui giochiamo a dire chi è meglio e chi peggio. Vai a capire perché un artista è ottavo e l’altro quinto. Tempo 2 mesi e già me ne pento, l’ottavo posto meritava il podio e il quinto non era nemmeno da top ten.
Però ci piacciono. Eccome se ci piacciono. Mentre le facciamo siamo vittime di un bias parecchio pesante: quello di considerarle assolute, eterne.
Quella che segue NON è la classifica dei dieci migliori album stranieri nel 2021 secondo NoiseCloud.
Quella che segue è la classifica dei dieci migliori album stranieri nel 2021 secondo me, per come la penso oggi. E domani chissà, dopodomani si vedrà e tra un anno esatto arriverà una nuova variante del COVID e un’altra classifica brutta come questa.
A coronare il tutto, una playlist con le migliori canzoni ascoltate quest’anno degli album in elenco, da ascoltarvi assieme ai pezzi natalizi di Michael Bublé.
Intanto, buon divertimento e buone feste.
10. History of Everything Ever, Flunk
Partiamo in quinta con un album (e degli artisti) che molto probabilmente saranno ignorati dalla maggior parte delle riviste di settore. Sono 20 anni che i Flunk, band trip hop norvegese, ci regalano album impregnati di suoni onirici e rilassanti. “History of Everything Ever” non fa eccezione. E via di tastiere, voci soffuse, atmosfera chillout. Non siamo comunque in una SPA di Merano, ragion per cui consiglio l’ascolto di questo disco con una certa attenzione, almeno la prima volta.
9. Spiral, Darkside
“Spiral” è il secondo album del progetto Darkside del duo Dave Harrington Nicolàs Jaar, quest’ultimo mago, alchimista, però a volte pure musicista compositore di musica elettronica. Nel suo essere poliedrico, Jaar riesce a passare con nonchalance dalla musica dance (sotto lo pseudonimo Against All Logic) alle sciccherie un po’ più avanguardistiche, come in questo caso. “Spiral” suona davvero bene e piace, pur con dei momenti un po’ troppo da “colonna-sonora-da-store-di-vestiti-griffati-in-Corso-Vittorio-Emanuele-a-Milano”.
8. Happier Than Ever, Billie Eilish
Billie Eilish non ha bisogno di presentazioni. A 20 anni è già più che un’icona, con uno stuolo infinito di fan. Ed è soprattutto una sicurezza, una garanzia: un po’ come i cappelletti in brodo a Natale in Romagna. La cosa che mi fa impazzire di questa popstar è l’uso della voce, non usata come mazza chiodata da sbattere sui nostri timpani, ma modulata, costruita, sussurrata, in contrasto con tanti altri artisti che giocano a chi ce l’ha più grossa (l’ugola). Ma ce ne fossero di più in giro come Billie Eilish.
7. Sympathy For Life, Parquet Courts
Rigettiamoci a capofitto negli impervi territori della musica indie americana. I Parquet Courts sono una vecchia conoscenza, ogni anno ci danno appuntamento ed ogni anno tirano fuori un disco uguale a quello prima. Insomma, dei moderni AC/DC, ma con le camicie di flanella. Però che dire: è sempre bello rivederli, riascoltarli. “Sympathy For Life” cavalca la scia dell’auto-citazionismo, con i Parquet Courts che suonano i Parquet Courts. Lo fanno comunque benissimo e il risultato è un disco ultra-godibile ben confezionato.
6. TYRON, slowthai
Tra i (pochi) rapper che ho ascoltato quest’anno, slowthai è quello che mi ha convinto di più. “TYRON” (che non è altro che il suo nome di battesimo, Tyron Kaymone Frampton) è la fatidica seconda prova dell’artista, dopo un esordio davvero poco incazzato in cui parlava di cose simpatiche come la Brexit (slowthai è britannico). In questo nuovo lavoro cerca di mostrare tutto il suo eclettismo, in una prima parte tutta arrabbiata con i titoli in CAPS LOCK e una seconda parte in cui sfoggia una vena più riflessiva, fregiandosi di collaborazioni un po’ più “patinate” (James Blake, Mount Kimbie). Il ragazzaccio cresce in fretta.
5. The Near The Fountan, More Pure The Stream Flows, Damon Albarn
Premessa: Damon Albarn ha 50 anni (51, anzi) ed è oggettivamente un genio, non sto a spiegarlo adesso, ma è così. Ogni anno fa qualcosa, un po’ a suo nome, un po’ sotto mentite spoglie, un po’ attraverso i suoi mille progetti. Nel 2021 ha preso la cittadinanza islandese e ha dedicato alla sua nuova casa un album. Questo album. Parla di vulcani e pioggia che si trasforma in neve. “Everyday Robots”, il suo primo disco solista, mi è piaciuto di più. Qui lo troviamo un po’ troppo malinconico, ma a un livello più che accettabile.
4. SKA DREAM, Jeff Rosenstock
Ma cosa potrà mai passare nella testa di questo qui? Jeff, sei pazzo, Jeff. Insomma, prima fai un album punk rock, un genere molto nelle tue corde (“NO DREAM”, uscito nel 2020) e poi pensi: ma se adesso facessi lo stesso disco, ma tutto ska? Ma se facessi le stesse canzoni, con gli stessi titoli, ma tutti ska? (es. “NO TIME” diventa “NO TIME TO SKANK”, “Leave It in the Sun” diventa “Leave It in the Ska”. E potrei andare avanti). Ok Jeff. Noi siamo pure contenti, Jeff. Ma tu sei fuori di testa.
3. Far In, Helado Negro
Vi prego, non mettete “Far In” come sottofondo dei vostri aperitivi a base di Aperol Spritz annacquato, stile lounge music. È vero che da una parte questo disco è un toccasana per lo stress, ma dall’altra richiede un ascolto attento. Perché le variazioni sul tema, i cambi di rotta e quant’altro sono molteplici. Alcuni pezzi, più danzerecci, flirtano col synth-pop, altri col folk, con uno sguardo sempre ammiccante all’elettronica. A unire tutti i tasselli c’è Helado Negro, votato ad americalatinizzare qualunque cosa tocchi. Un po’ re Mida, un po’ psicologo, il risultato dopo averlo ascoltato è una serenità di fondo.
2. Hey What, Low
I Low non vanno tanto di moda in Italia (un po’ come tutta la musica di questa classifica). Peccato, perché con “Hey What” hanno tirato fuori l’ennesimo concentrato di chitarre distorte, riverberi, valvole, manopole girate al massimo. Loro, tra i pochi superstiti di una scena, quella slowcore, che in Italia è meno conosciuta della Fiera del Bue Grasso di Carrù (non c’è storia). Loro, che comunque non ne sbagliano mezza. Il pezzo di apertura, “White Horses”, con quei suoni sintetici e quelle voci intrecciate, si candida miglior canzone dell’anno.
1. Where The Viaduct Looms, Nell Smith & The Flaming Lips
Chi poteva immaginare che il gradino più alto del podio sarebbe stato occupato da una ragazzina quattordicenne che canta delle cover di Nick Cave & The Bad Seeds accompagnata dalla band di cui è sempre stata fan? Una favola, un sogno. E chi conosce i The Flaming Lips sa che hanno avuto idee anche più strambe di questa. Ma “Where The Viaduct Looms” è soprattutto un album di pezzi reinterpretati in maniera incredibile, calati nella psichedelia made in Oklahoma che solo loro sanno trasmetterci. Nell Smith ci mette la voce e il risultato è impressionante. Da ascoltare in loop fino alla fine dei nostri giorni.