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Nel senso che l’ho conosciuto personalmente. Non che sia stato difficile, sia chiaro. Piuttosto è stato fortuito, ecco. Ma a posteriori, conoscendolo meglio, ascoltandolo dunque, non poteva essere altrimenti.
Metà dicembre. Il 15 dicembre, per l’esattezza, al Sanbapolis di Trento.
Fa un gran freddo nella città circondata dalle montagne. Io sono al circolo di fiducia a fare quello che si fa di solito ad un circolo di fiducia quando termini lavoro e non vuoi andare a casa. Annoiato, guardo il telefono, trovo un messaggio inaspettato da Davide: Stase sono al Samba che c’è un concerto. Nessun invito esplicito. Una mera informazione. Mi piace pensare che tra amici si comunichi così, lanciandosi degli ami. Lui è di un’altra città circondata da altre montagne, ma più a nord; la pigrizia, la routine, l’età che avanza, il campanilismo tra le due città, ci si vede sempre meno insomma. Di solito quelli che risiedono a nord, non “scendono” per concerti o avvenimenti in genere. Mi insospettisco. Mi manda due info generiche sull’evento. Lui non conosce nessuno dei due gruppi, io nemmeno. Chissà perché ci va mi domando.

Concerto? Raramente dico di no ad un concerto, quasi mai se gratis e vicino casa. La “rassegna” è Suoni Universitari. Guidando fino al teatro(!) cerco di ricordare l’ultima volta in cui ci andai. Sicuramente pre-pandemia, probabilmente ero universitario. Tralasciando la singolarità del luogo, ci ho visto parecchi artisti. Quindi grazie Suoni Universitari!
Entro in ritardo, concerto già iniziato. Tutti seduti. Ah già, dimenticavo. Davide è prima fila! Deve davvero tenerci penso. Sul palco salta, strilla, balla, scalcia, ondeggia un pazzo. Avrà la mia età. Cappellino d’ordinanza e occhiale da vista. È carico. Con lui una band di quattro randagi a volte strimpella a volte pesta. Sono in sintonia, si percepisce, ne hanno sicuramente passate delle belle assieme. Cercano di stare al passo con le marachelle del frontman, che canta salendo sulle sedie libere in mezzo al pubblico disorientato. Tra una canzone e l’altra parla in inglese. Il pubblico inizia a sciogliersi. Alcuni accompagnano le canzoni anche. Mi piace. Le chitarre hanno bei ritmi, si intrecciano. Il basso ha personalità. La batteria è precisa e discreta. Le parole? Beh, le parole sono importanti no?

I fioi (espressione veneta, Jesse è padovano) scendono dal palco. Giusto il tempo di incassare un applauso caloroso, come solo il popolo in mezzo alle montagne sa essere, e di nuovo a bordo. C’è da liberare la scena per l’artista seguente. Hanno un tecnico suono, un tour manager scoprirò. Ma non chi gli sgombra il palco. Gli va bene così, fa parte del loro mestiere. Questi siamo sembrano voler comunicare nei loro gesti naturali. Ancora non so il nome della band che ho visto. So solo che mi sono piaciuti.
Dopo di loro è il turno di una ragazza più giovane, solista. Microfono + tastiera + batteria. Belle basi, bella voce. Il pubblico sembra gradire. Forse è venuto per lei. Sento quattro canzoni. Traggo le mie conclusioni affrettate, ed esco. Farà sicuramente carriera, probabilmente la sta già facendo. Ma non è il mio genere. La mia mente è ancora attonita da quelli prima. Quei cinque ragazzi avranno un altro genere di successo penso. La loro musica è di un altro genere.

Non è educato uscire nel pieno di un’esibizione, me ne rendo conto. Se poi fuori fa freddo è puro masochismo. Fuori trovo quelli che, chi va in bagno, chi va a rifornirsi il bicchiere, chi la pensa come me. Noi fuori. Fuori conosco i cinque che erano sul palco poco prima. Ed è come li conoscessi da sempre. Jesse, il più fuori di quelli fuori. Vaga cercando accendini o sigarette, non ricordo, ma ancora visibilmente in preda dall’adrenalina da concerto. Gli altri più rilassati, come degli sportivi a fine partita. Con la massima naturalezza mi viene offerta una birra, Moretti da 33cl. Come rifiutare? Capisco mi sarei fermato, capisco che fuori mi sento meglio. Corro dentro a prendermi la giacca sprovvedutamente lasciata all’interno, e realizzo che forse il bello dei concerti con le sedie è che non serve il guardaroba!

Mi presento, ci presentiamo. Impiego almeno tre tentativi ad imparare il nome del gruppo, che poi è un solista: Jesse The Faccio. Domando solo perché parlasse in inglese al pubblico? Non lo sa. Lo fa con naturalezza, questo quello che traspare. Questo quello che conta. Conosco il tour manager e i musicisti. Conosco chi sta dietro Dischi Sotteranei. Scopro l’universo sotterraneo.
I ragazzi sono padovani, prima data nella mia città, mi chiedono cosa si può fare dopo. Sono carichi. Andranno a dominare nel miglior bar in centro. O nell’unico aperto dopo la mezzanotte. Nel mentre termina l’altro concerto. Esce la gente, saluto Davide, torna di fretta al nord. Lo ringrazio. In fondo è merito suo.
Nei giorni seguenti ascolto, seguo e mi faccio rapire dalla musica di Jesse. Imparo a conoscerlo meglio. Ne condivido i pensieri. Lui non è timido, e nel suo ultimo EP uscito ad ottobre non fatica a mettersi a nudo e ad aprire le porte di casa sua, facendo trasalire la sincerità del suo essere e della sua musica. Invitando l’ascoltatore a stare dentro e non più fuori.

4 pezzi dell’EP in cui in tutti i video è nudo in una stanza e situazione diversa di casa.


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