P L Z: L’IDEALE SAREBBE CANTARE DEI MANTRA
Due musicisti, due volti, due maschere. Una coppia artistica, come tante su questo mondo, ma differente. I P L Z sono così. Ti scavano dentro, flirtano con te attraverso i loro suoni. La migliore compagnia possibile durante le torride estati a Milano in agosto, per citare uno dei loro pezzi più importanti. Tanta elettronica, effetti e tastiere, al servizio di un progetto che – come ci aspettiamo – potrebbe acquisire maggiore notorietà all’interno del panorama alternativo.
Qui il nostra botta & risposta.
In due parole, raccontate ai lettori di NoiseCloud il progetto P L Z.
Siamo due musicisti-produttori in quel di Milano. Facciamo musica elettronica per cantare la nostra gioiosa alienazione. Abbiamo maschere di lattice per proteggere le cicatrici del tempo che passa dalle intemperie e dal moralismo imperante degli anni ‘20.
Piglio cantautoriale dalla tradizione italiana, sonorità elettroniche che guardano più
all’Europa: è questa la direzione del vostro progetto?
Siamo nati e cresciuti con i suoni dell’elettronica inglese e tedesca. E quando si canta in italiano il paragone con il cantautorato diventa inevitabile per come è fatta questa nostra lingua. Fare musica elettronica in italiano, avendo quei suoni e quei riferimenti in testa, è una sfida eccitante, un modo di poter guardare al futuro con i piedi ben ancorati nel passato.
È passato un anno dalla pubblicazione di “MEGA” (per l’etichetta Costello’s Records) e il singolo “Milano d’Agosto” è diventato parte della colonna della serie TV “The Kardashians”, su Disney+. Questo risultato vi ha fatto conoscere a più gente?
Ci ha molto sorpreso che “Milano d’Agosto” sia stata scelta dalla produzione della serie. Ma poi, guardando il risultato, ci è sembrato che ci stesse troppo bene. Quanto a farci conoscere, certo qualcosa in più ha fatto, ma bisogna ancora lavorare molto.
Parlateci delle vostre influenze musicali: guardate più all’Italia o all’estero?
Musicalmente siamo più attratti dai suoni d’oltralpe: dalla techno tedesca alla garage inglese; dal trip-hop anni ‘90 alla weird disco degli anni ‘00. Iniezioni costanti di Björk e Warp music.
Come avviene il vostro processo creativo? I testi sono al servizio della musica oppure il
contrario?
Partiamo solitamente dalla musica, dal mettere giù un beat o una progressione armonica, improvvisando sulle macchine. I testi nascono come svolgimento di una frase, di un motto. Cerchiamo di essere il più sintetici possibile. Le ragioni della musica prevalgono sempre su quelle della parola, anche se questa deve avere il suo senso e peso. È difficile trovare il giusto equilibrio.
Per questo non crediamo molto alla definizione di cantautorato elettronico. L’ideale sarebbe arrivare a cantare solo dei mantra, ma la forma canzone ci morde alle calcagna.
Ascoltando “MEGA” ho pensato a Cosmo, uno dei pochi artisti italiani con forti attitudini
clubbing nelle sonorità: un possibile featuring con lui vi interessa o parlate un’altra lingua?
Grande stima di Cosmo e di tutti quegli artisti che cercano di coniugare elettronica e testi in italiano. Pensiamo ad esempio a Whitemary, che abbiamo voluto fortemente sul pezzo “MEGA”.
Siamo forse ancora troppo oscuri e piccoli per poter dialogare con Marco, che aleggia a tutt’altro livello di visibilità, ma, se le nostre strade si incroceranno in futuro, sarà un piacere confrontarsi.
Vedremo.
Come cambia la vostra musica nella dimensione live?
Le nostre sono ancora esibizioni in spazi piccoli, club, party per pochi adepti. Di conseguenza tutto si gioca sul coinvolgimento del pubblico vis a vis, in una lotta corpo a corpo. Meniamo forte sui nostri pad e tastierume vario; sudiamo sette strati di epidermide sotto le maschere, rigenerandoci ogni volta come il serpente che si fa il peeling fra i sassi. Nell’attesa di lavorare a produzioni più
oleate e pirotecniche, per ora andiamo di gomito e di anche. Umilmente bellissimi.